03 novembre 2022

ISTAT Enti di Terzo Settore e gestione del rischio. I presidi legali interni all’ente.

di
Avv. L. Pilon
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I principali presidi interni dei rischi connessi alla gestione e all’attività, evidenziano come anche il modello legale considera le variabili relative al tipo giuridico, alla dimensione personale e a quella economica degli enti.

La lettura ragionata dei dati quantitativi rilevati dall’ISTAT nel 2015 e nel 2019 svolta nel documento titolato “Il non profit in evoluzione - Primo rapporto su bisogni assicurativi, scelte ed esigenze degli enti” fornisce molteplici spunti di riflessione sull’evoluzione di un fenomeno che, oltre a confermarsi di un rilievo sociale ormai irrinunciabile e di una valenza economica tutt’altro che trascurabile, si manifesta anche come portatore di modelli organizzativi variegati e in parte originali, che meritano di essere valorizzati per la loro specificità e non, invece, omologati. 

La fotografia che emerge, tra le altre cose, mostra in modo nitido come, quanto a tipi giuridici adottati, l’85% circa delle organizzazioni non profit censite sia costituita in forma di associazione con un monte entrate complessivo (in via preponderante inferiore ad € 100.000,00 annui) che, mediamente, per circa un terzo è di natura commerciale e per gli altri due terzi extra commerciale

Per converso, circa il 5% della platea complessiva è costituito da enti aventi forma giuridica di cooperativa sociale con entrate di natura commerciale pari a circa l’85% e di natura extra commerciale per il restante 15%

Continuando il confronto tra le due tipologie di enti, emerge un altro dato interessante: nelle associazioni non profit il rapporto medio tra le persone impegnate è di un dipendente ogni 17 volontari; nelle cooperative sociali, invece, tale rapporto è di 10 dipendenti per ogni volontario

Si tratta quindi di due forme organizzative che, seppure entrambe riunite entro il perimetro del Terzo Settore, sono tra loro assai diverse. Di ciò lo stesso legislatore ha tenuto debito conto, come si cercherà subito di rendere evidente prendendo lo spunto della disciplina legale dei due principi presidi interni predisposti per le organizzazioni economiche e sociali.  

Il capitolo 6 del Rapporto sopra richiamato svolge una sintetica, ma utile e meritoria, trattazione dei sistemi di controllo interni all’ente imposti o previsti dal legislatore. 

Ivi, in particolare, viene fatto un espresso richiamo a tre di questi presìdi legali: il sistema predisposto dal D. Lgs. n. 81/2008 in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro; la scriminante prevista dall’art. 6 del D.Lgs,. n. 231/2001 in tema di responsabilità amministrativa dell’ente e, infine, la regolamentazione data dal CTS all’organi di controllo per gli enti del Terzo Settore. 

Le caratteristiche dimensionali ed economiche degli enti non profit emergenti dalla lettura dei dati forniti dal Rapporto, tuttavia, conferma come quei presidi interni, per essere adeguati e funzionali, debbano anche essere adattati alla specificità dei vari enti e ciò, senza allontanarsi dalle previsioni legislative, ma applicandole nella loro sistematicità e completezza. 

Conservando il confronto tra le due tipologie di soggetti giuridici di Terzo Settore indicati sopra (associazioni e cooperative sociali), infatti, netta è la sensazione che il modello generale delineato dal legislatore nel CTS è costruito avendo presente le caratteristiche operative, organizzative ed economiche della cooperativa sociale, mentre sarebbe una forzatura poco efficace pretendere di applicare lo stesso vestito alle associazioni di piccole dimensioni

Più precisamente. 

La tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ha nel D.Lgs. n. 81/2001 lo schema generale da  applicarsi, ma in presenza di enti che mediamente hanno un rapporto di 1 a 17 tra lavoratori e volontari (come appunto le associazione emergenti dal Rapporto, andrà tenuto conto che l’art. 3, comma 12 bis, dello stesso corpo normativo prevede che: “Nei confronti dei volontari di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, dei volontari che effettuano servizio civile, dei soggetti che svolgono attività di volontariato in favore delle associazioni di promozione sociale di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 383, delle associazioni sportive dilettantistiche di cui alla legge 16 dicembre 1991, n. 398, e all'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e delle associazioni religiose, dei volontari accolti nell'ambito dei programmi internazionali di educazione non formale, nonché nei confronti di tutti i soggetti di cui all'articolo 67, comma 1, lettera m), del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, si applicano le disposizioni di cui all'articolo 21 del presente decreto”.  

Tale norma di rinvio, pur prevedendo obblighi più limitati, non fa comunque venir meno per l’ente l’obbligo di predisporre un proprio documento che, partendo dalla propria situazione, dia conto di aver svolto una adeguata valutazione critica di sufficienza nel concreto di tali più limitate misure obbligatorie. 

Quanto al modello di organizzazione e gestione previsto all’art. 6 del D. Lgs. n. 231/2001, se costruito in funzione delle esigenze precisate al comma 2 di tale norma, necessariamente risulterà proporzionato alle dimensioni e alla complessità organizzativa dell’ente e delle attività da lui svolte. 

Quanto, invece, alla individuazione dell’organismo di vigilanza, va ricordato che il comma 4 dello stesso art. 6 prevede che “Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati alla lettera b), del comma 1 [vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e curare il loro aggiornamento: n.d.r.], possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente”. 

Per parte sua, l’art. 30 del CTS da un lato prescrive l’obbligatorietà dell’organo di controllo per le associazioni che, per due esercizi successivi, abbiano superato almeno due dei limiti di patrimonio, di ricavi e di dipendenti occupati ivi precisati; dall’altro, attribuisce all’organo di controllo anche le funzioni di vigilanza ai fini voluti dal D. Lgs. n. 231/2001

Sembrerebbe, quindi, emergere uno schema per il quale, fino a che l’organo di controllo non è obbligatorio, l’ente non dovrà neppure predisporre ed adottare il modello di organizzazione funzionale alla prevenzione dei reati che importano responsabilità amministrativa dell’ente, mentre quando l’organo di controllo diviene obbligatorio, esso dovrà anche occuparsi della vigilanza 231

La lettura sistematica delle varie norme, tuttavia, non legittima una tale conclusione. Infatti, da un lato l'adozione del modello di organizzazione e gestione ex 231 non è mai obbligatoria per gli enti; dall’altro, nel sistema della 231 lo svolgimento delle funzioni anche di organismo di vigilanza in capo al collegio sindacale, al consiglio di sorveglianza o al comitato per il controllo della gestione è un’opzione non obbligatoria e consentita in via generale alle sole società di capitali nel rispetto del principio generale che l’organismo di vigilanza deve essere dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo. 

Si ritiene, pertanto, più corretto affermare che è nell’interesse dell’associazione (e di ogni altro ETS)  dotarsi di un modello e di organizzazione e gestione e di un organismo di vigilanza a prescindere dalle sue maggiori o minori dimensioni, poiché ciò è condizione per poter andare esente da responsabilità amministrativa in caso di reato commesso dai propri collaboratori a proprio vantaggio o interesse; se l’ente è di piccole dimensioni  le funzioni di vigilanza potranno essere svolte dal proprio organo dirigente; se l’associazione è dotata di un organo di controllo, le funzioni di organismo di vigilanza potranno essere assegnate ad esso; ma in caso l’ente potrà nominare un autonomo organismo di vigilanza 231, sia che abbia un organo di controllo ex art. 30 CTS, sia che non ce l’abbia.