09 novembre 2022

COP27: il mondo in Egitto contempla l'inferno climatico

di
Giuliano Giulianini, giornalista Redazione www.earthday.it
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Fino al 18 novembre va in scena a Sharm el-Sheikh la 27° Conferenza sul Clima dell'ONU. I delegati dei governi del pianeta discutono di procedure e promesse mentre si avvicina sempre più minacciosamente quello che il Segretario delle Nazioni Unite ha definito nel discorso di apertura un “inferno climatico”.

Le parole che seguono hanno aperto la 27° COP - Conferenza delle Parti sui Cambiamenti Climatici organizzata dalle Nazioni Unite. “Cari amici, tra qualche giorno la popolazione del nostro pianeta taglierà un nuovo traguardo. Nascerà l'otto miliardesimo membro della famiglia umana. Che risponderemo a questo bambino quando sarà abbastanza grande da chiederci: - Che avete fatto per il nostro mondo quando ne avevate la possibilità? - Stiamo lottando per le nostre vite. E stiamo perdendo. Le emissioni di gas serra continuano ad aumentare. Le temperature globali crescono. Siamo su un'autostrada che porta all'inferno climatico e il nostro piede è ancora sull'acceleratore. L'umanità ha una scelta: collaborare o morire”. Questi toni drammatici o, qualcuno potrebbe dire, allarmistici, non sono usciti dalla bocca di un estremista ecologista. Sul podio di Sharm el-Sheikh, a redarguire in questa maniera i delegati dei 198 paesi partecipanti, non è salita la “solita” giovane ambientalista che reclama i diritti delle nuove generazioni; né un rappresentante dei popoli più afflitti dal cambiamento climatico che chiede ai paesi ricchi di cambiare stile di vita. La dura requisitoria che ha dato il via alla COP27 è di António Guterres: segretario generale dell'ONU dal 2017, già primo ministro portoghese e politico di lunghissimo corso. Insomma, non proprio un agitatore catastrofista.  

 

Con il passare dei decenni gli allarmi sui cambiamenti climatici, ambientali e conseguentemente sociali (migrazioni, guerre, accaparramento di territori), sono passati dalle proteste dei pionieri dell'ambientalismo (spesso denigrati) agli scritti degli scienziati (a lungo ignorati) fino agli appelli delle celebrità (encomiabili ma all'atto pratico poco incisivi). Il fatto che ora anche i politici di altissimo livello assumano toni da tregenda quando parlano del prossimo futuro dell'umanità, dovrebbe togliere ogni dubbio sull'urgenza del problema. Eppure, secondo gli analisti e le previsioni, anche questa 27° COP sarà per lo più interlocutoria, nonostante tutte le nazioni abbiano ormai riconosciuto la fondatezza dell'allarme climatico e l'urgenza di trovare contromisure su vasta scala. A livello teorico potrebbe stupire che il mondo riesca a reagire in modo rapido e compatto a crisi politiche (leggi: guerre) economiche (crack finanziari, bolle speculative, recessioni) e sanitarie (leggi: Covid19), e al contrario in ventisette conferenze planetarie non abbia trovato soluzioni e risorse condivise per risolvere una crisi che minaccia la salute, lo stile di vita, la coesione sociale, la sopravvivenza stessa di tutti i popoli e tutti i paesi. 

 

Ripercorrendo la successione di queste ventisette adunate planetarie, risulta lampante quanto lentamente l'umanità stia reagendo alla più grande crisi ambientale di tutti i tempi. La storia comincia nel 1992 quando a Rio de Janeiro i paesi si accordarono per istituire l'UNFCC, la “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici”. Per prima cosa l'UNFCC stabilì che sì, il cambiamento climatico e il riscaldamento globale erano problemi reali, presenti e potenzialmente devastanti, e che i governi dovevano impegnarsi a ridurre le emissioni di gas serra. La prima COP riunita a Berlino nel 1995 servì a stabilire che gli obiettivi di contenimento delle emissioni appena fissati erano inadeguati a contenere i potenziali danni. Nel 1997 fu firmato il Protocollo di Kyoto, che impegnava le nazioni a ridurre le emissioni in media del 5% (rispetto al 1990) nel quinquennio 2008-2012. Nel 2001, mentre George W. Bush ritirava gli USA dagli impegni di Kyoto, alla COP7 di Marrakesh si cercò l'accordo per “attuare” Kyoto attraverso meccanismi finanziari, di pianificazione e assistenza tecnologica ai paesi in via di sviluppo. Nel 2005 finalmente entrò in vigore il Protocollo di Kyoto. Nel 2007 l'IPCC (l'organo scientifico che monitora per l'ONU il cambiamento climatico) ribadì contro ogni negazionismo che il riscaldamento globale era un fatto “inequivocabile”. Nel 2011, alla COP17 di Durban (Sudafrica), si stabilì che entro il 2015 le nazioni avrebbero dichiarato quali impegni prendere e quali azioni avrebbero poi avviato... a partire dal 2020. Traduzione: si decise di decidere; ma non subito. La COP20 di Lima del 2014 servì a chiedere ai governi di preparare per l'anno successivo delle proposte di impegni nazionali “chiare, trasparenti e comprensibili”.  

 

Finalmente nel 2015, preceduta di pochi mesi dall'Enciclica Laudato Si', con cui papa Francesco illustrò il concetto di “Casa comune” (la Terra) ed “Ecologia integrale” (che accomuna ambiente, economia e società), a Parigi andò in scena la COP15 che, faticosamente, diede vita al “Paris Agreement”. L'Accordo di Parigi è la chiave di volta di questa storia: l'atto che ha rappresentato la presa di coscienza dell'umanità rispetto alla crisi climatica. Un contratto tra nazioni che ha fissato l'obiettivo di contenere, per la fine del XXI secolo, l'aumento della temperatura media del pianeta entro 1,5°C, rispetto ai valori pre industriali. Il problema è che già ora l'aumento medio è di circa 1,2 gradi, a 78 anni dal 2100; e gli ultimi studi prevedono che, se continueremo a inquinare ai ritmi attuali, il XXII secolo inizierà con temperature medie aumentate tra i 2,5 e i 4°C.  

 

Negli anni e nelle COP successive si continuò a discutere di “linee guida”, di “implementazioni”, di un mercato del carbonio in cui i grandi paesi inquinatori possono compensare le proprie emissioni di gas comprando quote di “mancate emissioni” dalle nazioni meno responsabili della situazione. Nel frattempo, l'Unione Europea dichiarò ufficialmente la “emergenza climatica” e fissò per legge l'obiettivo di compensare completamente le emissioni di gas serra entro il 2050: è la cosiddetta “carbon neutrality” o neutralità climatica. D’altro canto, gli Stati Uniti, grande inquinatore ma anche avanguardia tecnologica delle fonti rinnovabili, si ritirarono dall'Accordo di Parigi per tutto l'arco della presidenza Trump, campione e icona dei negazionisti del climate change. Intanto, nel 2018, l'IPCC modificò le stime, stabilendo che per restare sotto il limite di 1,5°C le emissioni di gas climalteranti avrebbero dovuto essere ridotte in maniera più drastica di quanto stabilito in precedenza. Le ultime COP passarono discutendo: su quanti fondi destinare ai paesi “poveri” per sostenere la loro transizione energetica (produrre energia con i fossili è molto più economico rispetto a sfruttare le rinnovabili); su come regolare il mercato delle emissioni; e su quale data fissare come limite per raggiungere la neutralità climatica di tutto il pianeta: come detto l'Europa punta al 2050, come anche gli USA, che il presidente Biden ha riportato nell'alveo dell'Accordo di Parigi; l'India si è impegnata per il 2070, la Cina per il 2060.   
Dal 1992 sono passati tre decenni. Nonostante tutti questi accordi, protocolli e impegni, siano stati lungamente discussi, negoziati e sottoscritti con gran profluvio di annunci, festeggiamenti e retorica annessa, non solo la temperatura media del pianeta è inesorabilmente aumentata, ma anche le emissioni di gas serra, dirette responsabili del riscaldamento globale, hanno continuato a crescere, e non poco. L'indicatore chiave di tutta la questione è la concentrazione di CO2 in atmosfera. Prima dell'era industriale era di circa 280 parti per milione (ppm). Ancora negli anni '60 del secolo scorso era intorno alle 300 ppm. L'IPCC ha da tempo fissato in 450 ppm la soglia da non superare per non far aumentare la temperatura del pianeta di oltre 2°C. Le conseguenze più gravi sarebbero: inondazioni più frequenti; estinzione di moltissime specie animali e vegetali; cancellazione di aree litoranee in tutto il mondo; scioglimento dei ghiacciai con conseguente scarsità d'acqua potabile per le popolazioni, ad esempio, di Cina, India, dei paesi affacciati sulle Ande e sull'arco Alpino; siccità più lunghe e frequenti nel bacino del Mediterraneo; alterazione del ciclo dei monsoni. Nel 2013 abbiamo superato le 400 ppm e attualmente abbiamo superato le 420 ppm. Per dare un'idea del rischio, 4,5 milioni di anni fa ci fu un periodo relativamente caldo del clima del pianeta: le concentrazioni di CO2 era di circa 400 ppm (minore dell'attuale); il livello medio dei mari era 24 metri più alto rispetto ad oggi; la temperatura media era di 4°C maggiore; e non c'erano esseri umani sul pianeta. È questo il “piede sull'acceleratore” di cui parla il Segretario dell'ONU: dovremmo frenare (neutralità carbonica) e magari innestare la retromarcia, riportando a terra le particelle di gas in eccesso che riscaldano l'atmosfera. In natura lo fanno le foreste (che continuiamo a tagliare) e gli oceani. Ma la realtà è che non riusciamo neanche a rallentare: il flusso di anidride carbonica e altri gas serra generati da industrie, trasporti, produzione di energia e attività agricole continua ad aumentare. 

 

Secondo l'agenda questa COP27 servirà a discutere di rinnovo degli impegni dei singoli paesi, di finanza climatica e di Loss & Damages. “Finanza climatica” sono gli aiuti che i paesi più ricchi (e stoicamente responsabili della situazione) hanno promesso di fornire a quelli in via di sviluppo, per aiutarli in una transizione ecologica che costa cara, soprattutto a loro. Dovevano essere 100 miliardi di dollari annui a partire dal 2009; ad oggi raggiungono a malapena gli 80. Il meccanismo “Loss & Damages” dovrebbe essere una sorta di assicurazione contro le conseguenze dei disastri climatici e ambientali, sempre a favore dei paesi più esposti e più fragili: le isole del Pacifico, le nazioni dell'Africa sub-sahariana e del sud est asiatico. Uno strumento sempre teorizzato, a volte discusso, ma mai definito, nonostante inondazioni, cicloni, siccità e alluvioni colpiscano come mai prima queste regioni geografiche. 

 

COP27 rappresenterà una svolta? I rappresentanti dei governi prenderanno iniziative e impegni coraggiosi per invertire la tendenza? Ricorderemo questa conferenza egiziana come quella in cui abbiamo iniziato a sollevare il piede dall'acceleratore? Osservatori e analisti non lo credono. Greta Thunberg, che un anno fa era andata alla COP26 in Scozia a scimmiottare i negoziati con l'ormai proverbiale “bla bla bla”, stavolta non è neanche andata all'evento, bollandolo come inutile. Il vaso di Pandora potrebbe ormai essere vuoto. Ma resta sempre la speranza sul fondo.