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31 dicembre 2020 in Efficacia - Stabilità

Avv. L. Pilon | Terzo settore ed enti religiosi, una nuova prospettiva

di
Avv. Lorenzo Pilon
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Il Convegno tenutosi a Verona il 27 settembre 2018, dopo aver posto in evidenza come la Riforma resti un cantiere tutt’altro che compiuto, anche dopo l’emanazione dei decreti correttivi, ha ribadito un fatto essenziale: il Terzo settore non è e non può essere un contesto giuridico ove chi persegue attività di interesse generale viene omologato in un unico modello organizzativo.

Al contrario, il “nuovo diritto del Terzo settore” rappresenta lo sfondo ben definito ove far emergere, marcandone le specificità, le singole tipologie di enti e le caratteristiche proprie delle singole attività di interesse generale.

 

1. Il motivo del particolare regime riservato agli enti religiosi civilmente riconosciuti

 

Vi è tuttavia una categoria di enti, quelli che si qualificano per la loro appartenenza ad una confessione religiosa:

a) di cui un corpo legislativo che, per mandato del legislatore delegante, si proponeva di “sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona” non poteva non tener conto;

b) la cui specificità anche giuridica non poteva trovare sufficiente tutela e valorizzazione nella sola articolazione delle tipologie soggettive di enti sviluppata nel Codice, e nella sottolineatura delle peculiarità operative collegate alle singole attività di interesse generale.
Infatti, quanto al primo aspetto, va detto che ai registri prefettizi delle persone giuridiche risultano iscritti oltre 35.000 enti appartenenti all’ordinamento della sola Chiesa cattolica, svolgenti molte delle attività ora qualificate di interesse generale, in alcuni settori anche con un contributo determinate all’offerta di servizi fondamentali al cittadino.
Quanto al secondo aspetto, l’ente religioso civilmente riconosciuto – essendo diretta espressione dei principi costituzionale di libertà di religione (art. 8) e di libertà di organizzazione religiosa (artt. 19 e 20) – da un lato nasce e si giustifica all’interno di un ordinamento confessionale dotato di una necessaria autonomia e, dall’altro, non può essere vincolato all’esercizio “esclusivo” delle attività di interesse generale.

 

 

2. Il rapporto tra ente religioso e Terzo settore

 

Va ricordato come, nel nostro ordinamento, gli enti ecclesiastici e quelli appartenenti alle altre confessioni religiose possono vedersi riconosciuta la personalità giuridica di diritto comune (assumendo così la qualifica di “enti religiosi civilmente riconosciuti”) solo a condizione che abbiano fine di religione e culto e che tale fine sia “costitutivo ed essenziale” (cfr. per gli enti della Chiesa cattolica l’art. 2 L. n. 222/1985).
In forza dei principi costituzionali sulla libertà di religione, ciò, tuttavia, non impedisce a tali enti di svolgere anche attività diverse da quelle di religione e culto in senso stretto.
Ma, per un verso, il “fine di religione e culto” (proprio degli enti religiosi) e le “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” (imposte, invece, agli enti di Terzo settore) rappresentano due ambiti radicalmente diversi tra loro e per nulla sovrapponibili.
Per altro verso, non essendo le attività di religione e culto comprese nell’elencazione dell’art. 5 del Codice del Terzo settore e, rispettivamente, nell’art. 2 della Legge sull’impresa sociale, a tali enti non potrebbe essere applicato il vincolo dell’esclusività (e, rispettivamente della principalità) nello svolgimento delle attività di interesse generale voluto dalla Riforma.
Ciò ha imposto al legislatore, intenzionato a conservare al Terzo settore l’apporto rilevante degli enti religiosi, di riservare ad essi un trattamento speciale (giustificato dalla loro peculiarità giuridica e, quindi, non di privilegio): essi cioè possono scegliere di entrare nel perimetro del Terzo settore non come soggetti giuridici, ma limitatamente alle attività di interesse generale da essi concretamente esercitate.
Lo strumento utilizzato è quello della separazione, all’interno dell’ente, delle attività di interesse generale da sottoporre al regime proprio del Terzo settore attraverso la costituzione di uno specifico ramo. Si tratta di una scelta legislativa non inedita, poiché ad essa si è ricorsi già in passato in tema di ONLUS e di impresa sociale.
Più precisamente, affinché si produca questo effetto, l’art. 4 comma 3 del Codice del Terzo settore (e, con norma sostanzialmente identica, l’art. 1 comma 3 del Decreto sull’impresa sociale) richiede agli enti religiosi civilmente riconosciuti l’adozione di “un regolamento in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, recepisca le norme del presente Codice e sia depositato nel Registro unico nazionale del Terzo settore”. Viene inoltre prescritto che “Per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un patrimonio destinato e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all’art. 13”.


Quattro sono, quindi, le condizioni formali affinché gli enti religiosi civilmente riconosciuti possano assoggettare le attività di interesse generale da essi svolte al regime del Codice del Terzo settore e dell’impresa sociale:

a) l’adozione di un regolamento in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Poiché non si tratta di dare vita ad un autonomo soggetto giuridico, giustamente si parla di regolamento e non di statuto. Quanto al contenuto di tale regolamento, nell’intenzione del legislatore esso deve nel contempo (i) assicurare attraverso il recepimento delle nome del Codice o della legge sull’impresa sociale (sia pure limitatamente alle attività di interesse generale esercitate) di assumere il modello organizzativo proprio degli altri enti di Terzo settore; e (ii) garantite il rispetto della struttura e delle essenziali finalità di tali enti, che restano intangibili poiché espressione dell’autonomia ordinamentale riservata alle confessioni religiose;

b) il regolamento adottato dovrà poi essere depositato nel Registro unico nazionale del Terzo settore. Ciò è perfettamente coerente con il disegno voluto dal legislatore che nel Registro ha inteso individuare lo strumento formale di identificazione di ciò che sta dentro la nuova categoria giuridica;

c) la segregazione di un patrimonio che sia formalmente destinato allo svolgimento delle attività di interesse generale;

d) ed, infine, la tenuta di scritture contabili separate per le attività di Terzo settore.

 

 

3. I problemi aperti

 

L’impianto ora descritto è sicuramente rispettoso della particolare natura giuridica degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti ed ha una sua ragionevolezza sistematica.
Non mancano, tuttavia, rischi e problemi applicativi, su alcuni dei quali ci si aspettava che i decreti correttivi potessero confermare un’interpretazione dell’architettura normativa coerente con i principi generali.
Mi limito qui ad indicare un rischio e tre problemi.
Il rischio è che – nel tentativo di semplificare in sede applicativa ciò che, invece, ha una sua logica ed una sua complessità giuridica – si arrivi a soggettivizzare il ramo di attività degli enti religiosi, sovrapponendo così l’oggetto al soggetto e determinando un corto circuito che può seriamente pregiudicare l’originalità del contributo che gli enti religiosi civilmente riconosciuti possono dare al perseguimento dei fini voluti dal legislatore.
Tra i problemi, il più immediato è comprendere le caratteristiche del patrimonio destinato: qual è, nell’intenzione del legislatore, la natura di tale patrimonio? Si tratta, infatti, sicuramente di un patrimonio finalizzato a sostenere le attività di Terzo settore e a garantire il pagamento delle obbligazioni assunte in relazione a tali attività, ma ha anche l’effetto di limitare ad esso la responsabilità patrimoniale dell’ente religioso? Ovvero, ragionando a contrario, quella parte del proprio patrimonio che l’ente ha inteso conservare al perseguimento dei sui fini generali non destinandolo al ramo, concorre o meno a garantire le obbligazioni assunte nell’esercizio delle attività di Terzo settore?
Strettamente legato al tema della responsabilità patrimoniale dell’ente religioso, è quello legato al possibile verificarsi dello stato di insolvenza. Una tale situazione, riscontrabile ovviamente solo per l’ente di Terzo settore che eserciti l’impresa sociale, per espressa disposizione contenuta all’art. 14 del D. Lgs. 112/2017, determina l’assoggettamento dell’ente alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, con conseguente esclusione delle altre procedure concorsuali.
È coerente che, attesa la funzione liquidatoria di tale procedura con la conseguente estinzione dell’ente, gli enti religiosi civilmente riconosciuti – per rispetto della loro soggezione all’ordinamento confessionale – ne siano stati espressamente esclusi.
Ciò, tuttavia, porta con sé il paradossale effetto che, nel caso in cui la gestione del ramo impresa sociale da parte di un ente religioso determini una situazione di insolvenza, il soggetto giuridico titolare di tale attività, l’ente religioso appunto, potrà essere sottoposto a tutte le altre procedure concorsuali con la sola eccezione della liquidazione coatta amministrativa, voluta, invece, dal legislatore della Riforma proprio a tutela dell’interesse pubblico connaturale all’esercizio delle attività di interesse generale.
E ciò a tacere di tutte le altre implicanze giuridiche che, sul piano squisitamente del diritto ecclesiastico, il fallimento dell’ente confessionale porta con sé.
Si aggiunga, inoltre, che una analoga espressa deroga non è stata, invece e parallelamente, prevista all’art. 49 del Codice del Terzo settore nel caso in cui il Registro unico nazionale disponga l’estinzione o scioglimento dell’ente, così che si potrebbe pensare che, in un tale caso, l’ente religioso, e non il ramo di attività, possa essere sciolto su iniziativa di un’autorità estranea all’ordinamento confessionale.
Infine, il regime dei controlli voluti dalla Riforma, nel caso degli enti religiosi civilmente riconosciuti, trova applicazione al solo ramo di attività di interesse generale.
Almeno per gli enti appartenenti alla Chiesa Cattolica, tuttavia, il codice di diritto canonico ed i vari diritti particolari prevedono un articolato sistema di vigilanza.
La coesistenza e l’estensione dei due distinti ambiti di controllo dovrà trovare nella prassi applicativa un non facile coordinamento.

 

 

4. Le prospettive

 

A parte questi ed altri inevitabili problemi di coordinamento normativo, la Riforma del Terzo settore costituisce anche una fondamentale opportunità per esprimere la libertà di organizzazione per le attività degli enti religiosi.
La nuova normativa, infatti, stimola le comunità confessionali ad articolare l’azione ispirata dai propri convincimenti religiosi e che si sostanzi nell’esercizio di una tipica attività di interesse generale, non solo organizzandola attraverso le forme giuridiche proprie dell’ordinamento confessionale di appartenenza (partendo, cioè dall’ “alto” della specifica organizzazione gerarchica), ma anche utilizzando le forme giuridiche di diritto comune (partendo cioè dal “basso”) con una azione di più immediata prossimità con la realtà temporale ove i rispettivi ideali religiosi devono trovare applicazione.

 

Lorenzo Pilon